18 marzo 2020 11:47

Fa l’operaia da vent’anni e di anni ne ha 42, Italia D’Acierno, rappresentante sindacale della Fiom-Cgil nello stabilimento della Fca Italy-Fiat di Pratola Serra, in provincia di Avellino. Nell’emergenza si è dovuta occupare non solo delle sue paure, legate all’epidemia del Covid-19, ma anche di quelle dei suoi colleghi, circa 1.800 persone, che hanno minacciato lo sciopero a causa delle condizioni di sicurezza all’interno dello stabilimento che produce propulsori diesel per il mercato internazionale dell’auto.

“Facciamo un motore diesel, che non vende più, e per questo siamo in cassa integrazione da dodici anni, siamo lo stabilimento che ha fatto più cassa integrazione in Italia eppure nelle settimane in cui tutti stanno a casa, la nostra azienda ci ha costretti ad andare a lavorare”, spiega la donna che guadagna tra i 1.200 e i 1.300 euro al mese con un contratto di solidarietà che la porta a lavorare circa dodici giorni al mese, su turnazione, sette giorni su sette. Anche di notte.

A scatenare la paura degli operai è stata la notizia che l’epidemia di coronavirus è arrivata anche in provincia di Avellino, con numerosi casi soprattutto ad Ariano Irpino, dove si è acceso un focolaio particolarmente acuto nelle ultime settimane. E tuttavia l’azienda non aveva previsto particolari misure di protezione, né la chiusura dello stabilimento.

Il panico nelle fabbriche
“Molti lavoratori sono stati messi in quarantena dai propri comuni di residenza, perché avevano avuto contatti con dei contagiati ad Ariano Irpino”, spiega la sindacalista, ma in ogni caso l’azienda sembrava non voler prendere provvedimenti, almeno inizialmente. “Nel nostro caso condividiamo spazi comuni, spogliatoi, bagni, mensa, aree relax, entriamo e usciamo insieme dalla fabbrica, usiamo gli stessi spazi in gruppi di venti persone. Anche se non in tutti i reparti i lavoratori operano gomito a gomito”, racconta.

“Negli ultimi giorni abbiamo temuto di più il panico che il virus, perché i lavoratori hanno avuto delle vere e proprie crisi collettive. C’è chi ha chiamato i carabinieri perché alcuni non indossavano le mascherine, che non erano obbligatorie in ogni caso. Gli operai sono come tutti gli altri, hanno molta paura di quello che sta succedendo e non possiamo negare che ci sia un pericolo reale”, racconta D’Acierno, secondo cui alcuni reparti sarebbero più a rischio proprio perché i lavoratori sono costretti a lavorare a distanze ravvicinate.

“I lavoratori volevano che la proprietà obbligasse all’uso della mascherina, soprattutto quelli che operano in reparti in cui non è garantita la distanza di sicurezza”, continua l’operaia. Dopo le pressioni, l’azienda ha deciso di mettere in cassa integrazione tutti i lavoratori per una settimana, fino al 22 marzo. “Ma dal giorno successivo si riaprirà la questione: abbiamo chiesto che gli ambienti comuni siano sanificati, che siano garantite le distanze di sicurezza e l’obbligatorietà della mascherina”, conclude la sindacalista.

C’è chi ha paura di perdere il lavoro a causa del virus e chi ha paura di dover lavorare senza garanzie sanitarie

“Non credevo che fosse necessario produrre i motori diesel in un momento come questo, non pensavo di essere indispensabile come chi impasta il pane”, continua la la sindacalista, che avrebbe voluto che il suo stabilimento sospendesse la produzione, magari pianificando un recupero dei giorni non lavorati più avanti.

Una situazione simile la descrive Marco Verga, rappresentante sindacale nello stabilimento della Bitron, una fabbrica di valvole, in Piemonte. “I dipendenti sono un’ottantina e hanno dovuto fare uno sciopero prima di ottenere dall’azienda l’assicurazione che saranno adottati dei protocolli di sicurezza tra cui la sanificazione, i dispositivi di protezione come le mascherine e che sarà rispettata la distanza di sicurezza. Abbiamo chiesto inoltre un piano aziendale che prevede anche la cassa integrazione per rimodulare la presenza all’interno dell’azienda”, spiega Verga.

In Lombardia, secondo la sindacalista Roberta Turi, la situazione, soprattutto nelle zone più colpite dall’epidemia, è molto disomogenea: “La situazione è migliore dove il sindacato è presente, ma c’è un fattore molto grosso di paura e di panico tra i lavoratori. In Lombardia gli scioperi che ci sono stati negli ultimi giorni hanno portato in molti casi nella stesura di accordi in una ventina di aziende”. Ma i sindacati di base Si Cobas e Adl Cobas hanno dichiarato la mobilitazione permanente e lo sciopero, criticando anche l’accordo raggiunto dai sindacati confederali con Confindustria e con il governo sulla sicurezza e chiedendo la chiusura di tutte le fabbriche non necessarie alla sussistenza.

I facchini di Amazon
Questa è una delle contraddizioni delle circostanze eccezionali che stiamo vivendo: una parte del paese è preoccupata perché teme di perdere il lavoro a causa dell’epidemia di coronavirus, un’altra parte invece ha paura di contrarre la malattia perché deve andare per forza a lavorare, anche in settori come l’industria dell’auto, che non sono strettamente legati alla sussistenza.

Dalla Marcegaglia di Forlì fino alla Caterpillar di Ancona: un centinaio di fabbriche metalmeccaniche e migliaia di operai metalmeccanici scioperano da una settimana per chiedere che le aziende adottino il protocollo di sicurezza stipulato il 14 marzo dai sindacati confederali con la Confindustria e il governo, che definisce degli standard minimi di sicurezza all’interno di luoghi di lavoro altamente promiscui come le fabbriche, ma ora si sono mobilitati anche i facchini e i lavoratori della logistica dei grandi magazzini del commercio online come Amazon.

Molte aziende, dopo le pressioni subite nell’ultima settimana, hanno deciso di stringere degli accordi sulla sicurezza sul posto di lavoro, o addirittura di chiudere e di usare gli ammortizzatori sociali previsti dal governo, ma in molti stabilimenti invece sono ancora in corso scioperi e trattative, perché non c’è disponibilità a garantire gli standard richiesti. Le distanze non sempre sono rispettate, mancano le mascherine, i guanti e i disinfettanti per pulire le postazioni e gli spazi comuni.

Per questi motivi dal 15 marzo è stato proclamato lo sciopero a oltranza anche negli stabilimenti italiani di Amazon a Castel San Giovanni, in provincia di Piacenza, e numerose sono le proteste a Torrazza Piemonte (dove c’è stato un caso di Covid-19) e a Passo Corese, in provincia di Rieti. Tutti i lavoratori della logistica e i facchini hanno dichiarato sciopero in tutta Italia.

“Con la mole di persone che ci sono non è possibile lavorare in sicurezza”, spiega Beatrice Moia dello stabilimento di Amazon a Castel San Giovanni. “Ci passiamo continuamente vicino e tocchiamo le stesse cose, mangiamo nello stesso spazio. In mensa oggi eravamo tutti vicini e non c’era nessuno che monitorasse”, continua Moia. La situazione nello stabilimento di Castel San Giovanni è particolarmente preoccupante perché il territorio di Piacenza è quello con più casi di coronavirus in Emilia-Romagna. “Alcune postazioni sono separate, altre no. Io per esempio sono sempre a contatto con delle persone, ma devo essere io a stare attenta alle distanze di sicurezza”, denuncia Maria Ipri, una lavoratrice dello stabilimento Amazon nella provincia di Piacenza.

I lavoratori non sono supereroi
Il 14 marzo i sindacati confederali Cgil, Cisl e Uil insieme alla Confindustria hanno firmato un protocollo di sicurezza articolato in tredici punti che dovrebbe essere adottato da tutte le aziende, che continuano a lavorare nonostante l’emergenza. Il protocollo prevede tra le altre cose che siano garantite le distanze di sicurezza tra i lavoratori, che siano fornite le mascherine e i guanti, che siano chiusi i reparti non necessari e siano adottate quanto più possibile misure di sanificazione e di pulizia degli spazi comuni.

“Il sentimento dei lavoratori in queste ore è quello di tutto il resto dei cittadini. Se il governo prescrive a tutti di stare a casa, non si capisce perché non dovrebbe valere per gli operai, a cui viene chiesto invece per otto ore di essere dei supereroi con poteri speciali, quando frequentano mezzi pubblici affollati e posti di lavoro come le fabbriche”, spiega la segretaria nazionale della Fiom-Cgil Francesca Re David, che la scorsa settimana, insieme agli altri sindacati, ha chiesto al governo di chiudere tutte le fabbriche per metterle in sicurezza.

“Avevamo chiesto la chiusura di tutte le aziende, tranne di quelle indispensabili alla sussistenza come quelle del comparto agroalimentare e dei trasporti e le aziende metalmeccaniche necessarie. Questo non è avvenuto, il governo non ha fatto un decreto di chiusura delle aziende che non riescono a garantire la sicurezza, ma ha promosso un protocollo sulla sicurezza tra le parti sociali”. Uno strumento che, secondo la segretaria nazionale della Fiom, è stato utile in alcuni casi per sollecitare risposte e trovare soluzioni al livello locale. Ma la situazione rimane in molti casi ancora critica.

“Per esempio le mascherine sono un grande punto interrogativo; le mascherine non ci sono e anche per questo bisognava decidere al livello governativo quali aziende chiudere e quali lasciare aperte, per concentrare questi dispositivi lì dove sono indispensabili”, afferma Re David. “Bisogna inoltre garantire all’interno dei posti di lavoro che sia rispettata la distanza di sicurezza, negli spazi comuni e nei trasporti all’interno dell’azienda”. Re David giudica positivamente infine le misure che riguardano cassa integrazione, ammortizzatori sociali e blocco dei licenziamenti varati dal governo il 16 marzo in un maxidecreto da 25 miliardi di euro e auspica che le aziende se ne servano a questo punto per garantire la sicurezza senza gravare sul reddito dei lavoratori.

“Non trovo entusiasmante invece la misura dei cento euro in busta paga per i lavoratori che continuano a lavorare, non se ne capisce la ragione. È una misura populista che premia chi magari non ha scioperato. Altrimenti non si capisce come si possa quantificare in cento euro mensili la sicurezza dei lavoratori”, conclude la segretaria nazionale della Fiom.

Per quanto riguarda i facchini e la logistica la situazione è ancora peggiore e gli stabilimenti italiani sono in agitazione. “Già nei giorni scorsi diversi dipendenti avevano preso ferie e permessi, perché la sicurezza non era garantita”, racconta Elisa Barbieri, della Filcams Cgil di Piacenza. “Ma adesso abbiamo deciso di indire lo sciopero, uno sciopero anomalo, senza presidio e senza volantinaggi: l’azienda ha adottato poche misure, parziali e in ritardo. Oltre a quello che è scritto sul protocollo qui a Piacenza dovrebbe esserci un’attenzione in più perché la situazione contagi è davvero fuori controllo”.

Negli stabilimenti italiani di Amazon, che negli Stati Uniti ha annunciato centomila nuove assunzioni per fare fronte alla crescita delle richieste della spesa online, la paura del contagio è crescente. I dipendenti hanno paura di contrarre la malattia negli spogliatoi, quando si siedono alla loro postazione, quando si incontrano per consegnare il materiale o ancora quando sono in fila per andare in bagno durante la pausa.

“La multinazionale continua a non garantire le giuste tutele”, commenta la segretaria confederale della Cgil Tania Scacchetti . “L’impresa antepone la produttività e il profitto alla salvaguardia della sicurezza personale dei dipendenti. Forti del protocollo firmato con governo e la Confindustria, assieme a Cisl e Uil abbiamo chiesto ad Amazon di confrontarci per valutare quali attività siano realmente a rischio e quali possano essere temporaneamente sospese, ma abbiamo riscontrato un atteggiamento di totale chiusura”. L’azienda ha tuttavia respinto le accuse in un comunicato: “Stiamo seguendo rigorosamente le indicazioni fornite dal governo e dalle autorità sanitarie locali nell’implementare in tutti i siti le giuste misure per contenere l’emergenza sanitaria in corso”.

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