14 gennaio 2019 14:37

Lo sguardo di Adam Abdul Basit era inquieto. Le sue dita giocherellavano nervosamente con un accendino che aveva tra le mani. “Un vizio preso quando studiavo legge a Londra”, ha detto, quasi scusandosi di essere un fumatore, lui musulmano non praticante cresciuto in una famiglia bene del Sudan islamico.

Nonostante il luogo fosse sicuro, un albergo occidentale gestito da un greco nel centro di Khartoum, sapeva che i servizi di sicurezza hanno occhi e orecchie dappertutto.

I suoi timori erano fondati, e 72 ore dopo questa intervista è stato arrestato.

“Insieme a un gruppo di attivisti politici”, aveva raccontato Basit, “e alcune associazioni di categoria, come medici e insegnanti, abbiamo deciso di sostenere la rivolta cominciata spontaneamente il 19 dicembre e che si sta estendendo in tutto il paese. I cortei sono stati almeno un migliaio da quando i primi manifestanti sono scesi in piazza ad Atbara, e poi a Gadaref, nel Sudan orientale, nella capitale e nella città gemella Omdurman. L’onda della rivolta è arrivata fino in Darfur”.

Il governo ha risposto con fermezza alle dimostrazioni, autorizzando la polizia a reprimerle con cariche, uso di lacrimogeni e armi da fuoco. Sparando ad altezza d’uomo.

Persone inermi
I morti sono stati più di 40 secondo Amnesty international. “Solo” 24 e ritenuti “individui pericolosi”, secondo le autorità sudanesi, mentre per l’opposizione le vittime sono almeno 56. Il bilancio è fermo agli eventi di domenica 13 gennaio nel quartiere di Bahri. Molti dei “caduti”, considerati martiri delle rivolte, erano solo adolescenti e bambini. Shuogi Alsadag Ishag, il più piccolo, aveva da poco compiuto 11 anni.

“Si trattava di persone inermi”, accusano i leader delle proteste. “Nessun sovversivo, come sostiene il governo, ma cittadini normali, medici, avvocati, insegnanti e pensionati. Il regime, perché di questo si tratta, continua a mentire. Ha ucciso i dimostranti che avevano cartelli tra le mani e intonavano slogan contro il presidente Omar al Bashir per manifestare la loro rabbia per una situazione ormai insostenibile”.

Il Sudan è alle prese da anni con una forte crisi economica dovuta a un’inflazione record e ai bassi livelli di liquidità delle banche. Ad aggravare la situazione hanno contribuito le sanzioni statunitensi imposte nel 1997 che, seppur parzialmente rimosse nell’ottobre del 2017, condizionano ancora lo sviluppo del paese.

La decisione del governo di ridurre i sussidi statali ha fatto triplicare i prezzi del pane e di altri generi primari scatenando proteste già dall’inizio dello scorso anno. Il primo episodio significativo c’era stato durante un corteo a metà gennaio del 2018 con tre morti e centinaia di arresti, tra cui 16 giornalisti.

Repressione di regime
Il presidente Al Bashir, ex generale ispiratore di un golpe che lo ha portato al potere nel 1989, governa da sempre con metodi autoritari.

L’uso di milizie filoarabe, i sanguinari janjaweed, nel conflitto in Darfur che ha causato 400mila morti e due milioni e mezzo di sfollati, gli è costato un’accusa e un mandato di cattura della Corte penale internazionale dell’Aja per crimini di guerra e contro l’umanità, e di genocidio. Questa volta, per tentare di frenare l’ondata di proteste avrebbe assoldato contractor russi schierandoli al fianco degli uomini dei servizi di sicurezza di Khartoum per reprimere le manifestazioni di piazza e individuare i capi della rivolta. Gli attivisti di Change Sudan Now, un’organizzazione politica nata da un movimento studentesco, hanno scattato e diffuso su Twitter delle foto di addestratori dell’azienda moscovita Wagner, la stessa coinvolta nella guerra in Siria, rivelandone la presenza nel paese da fine dicembre.

In Sudan si fa sempre più pressante la richiesta di uno stato laico, pluralista e democratico

Alcuni di loro erano nel servizio d’ordine alla convention governativa con circa un migliaio di persone, in Green square sull’Africa road, che Al Bashir ha voluto fosse organizzata lo stesso giorno in cui i suoi contestatori si sono riuniti di fronte al parlamento.

Intervenendo davanti alla sua gente, il leader del National congress party ha annunciato una serie di riforme e misure dirette a superare la crisi, come l’avvio di un programma per l’aumento dei salari minimi e delle pensioni e un piano per la costruzione di nuovi alloggi per i cittadini meno abbienti.

Pressioni interne e dell’Unione europea
Ma né la leadership delle rivolte, né la Coalizione dei partiti di opposizione appena nata in Sudan credono nell’annunciata svolta che finora ha prodotto solo la caduta di qualche testa, come quella del ministro della salute, reo di aver autorizzato l’aumento del prezzo delle medicine. Una foglia di fico che non regge a fronte di una richiesta sempre più pressante in Sudan di uno stato laico, pluralista e democratico. La coalizione, formata da 22 sigle, chiede le dimissioni del presidente e la creazione di un consiglio di transizione.

“Il Fronte nazionale per il cambiamento pone una serie di condizioni politiche”, afferma Mubarak Fadil, una delle voci più autorevoli, “dall’istituzione di un consiglio che guidi il paese al posto dell’attuale governo, alla liberazione di tutti i manifestanti, i medici, i giornalisti e gli oppositori arrestati, tra cui Siddiq Youssef, alto dirigente comunista sudanese e leader dei partiti panarabi di Ba’ath”.

Che le forze di sicurezza stiano attuando in modo arbitrario e ingiustificato repressioni violente e arresti, con 1.200 fermi finora, lo ha denunciato anche la delegazione europea in Sudan con una forte dichiarazione in cui evidenzia come il paese si sia spinto troppo oltre e che “ci si aspetta che le autorità del paese assicurino il diritto alla libertà di riunione, di associazione e di espressione, in conformità con le leggi internazionali” per poi, è l’auspicio dei rappresentanti Ue tra cui l’ambasciatore italiano Fabrizio Lobasso, “esercitare da entrambe le parti moderazione ponendo fine alle violenze per allentare la situazione”.

Speranze pressoché nulle se si pensa che il 9 gennaio la polizia ha lanciato lacrimogeni fin dentro l’ospedale di Omdurman dopo aver ucciso quattro manifestanti, tra cui un ragazzo di 17 anni, nel corso di una dimostrazione davanti alla sede dell’assemblea parlamentare. Altre due persone, pazienti con problemi respiratori estranei alla protesta, sono morte intossicate dai gas. Nonostante la determinazione del governo a non lasciare spazio a qualsiasi forma di dissenso, pur di ottenere le dimissioni di Al Bashir i dimostranti, quanto gli attivisti politici, sono disposti a scendere in piazza a oltranza.

Anche a costo di un ulteriore spargimento di sangue.

Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it