27 novembre 2018 13:53

Gli striscioni degli abitanti di Kafranbel, piccola città di trentamila abitanti a 35 chilometri da Idlib, nel nord della Siria, fin dall’inizio della guerra hanno dato voce – a volte in modo ironico, altre disperato – a quei siriani che rifiutano sia il regime di Bashar al Assad sia il jihadismo. I loro messaggi impegnati e pacifici non hanno avuto vasta eco in Siria dato il fracasso delle armi, il rumore della propaganda del regime e dei diversi gruppi armati. Dietro agli striscioni di Kafranbel e dietro la voce di Radio Fresh c’era Raed Fares.

Come la sua regione di origine, Idlib, tuttora ultimo bastione ribelle in Siria, Raed Fares era uno degli ultimi giornalisti siriani liberi ancora vivi in Siria. È stato ucciso il 23 novembre insieme al suo fedele amico Hamoud Jneed. Fine delle trasmissioni.

Il silenzio si è già fatto sentire nelle immagini del suo funerale pubblicate dal giornalista siriano Ahmed Okde su Twitter: i giovani di Kafranbel che Fares ha sempre accompagnato nella lotta hanno seguito la sua salma in una manifestazione silenziosa. Nessuna risata, niente ironia. Bisognava essere Fares per ridere ancora sotto auspici tanto cupi e minacciosi. Mentre raccontava al collega americano di Npr, nel 2015, che i jihadisti di Jabhat al Nusra lo avevano appeso al soffitto per le braccia per sei ore, il conduttore Steve Inskeep aveva dovuto aggiungere: “Ci tengo a informare gli ascoltatori che mentre parla della tortura subita sta sorridendo”.

La verità a qualunque costo
Non era la prima volta che Raed Fares era stato minacciato di morte. Nel 2014 gli avevano sparato sessanta colpi d’arma da fuoco. Dopo quattro mesi di ospedale era sopravvissuto e malgrado i consigli dei suoi amici di lasciare Kafranbel, era tornato in Siria, spiega il giornale siriano Enab Baladi, perché era deciso a dare la sua versione dei fatti al mondo a qualunque costo.

Quando è scoppiata la rivoluzione, nel 2011, in Siria non esisteva la stampa indipendente e Fares ha dovuto inventarsi un ruolo di “giornalista attivista”, anche molto creativo. I popolari striscioni di Kafranbel sono apparsi ogni venerdì in città poco dopo l’inizio della rivoluzione, e da soli scrivono la storia della guerra. Cominciano, nell’euforia della rivoluzione, con un umorismo dell’assurdo. Il 31 ottobre 2011 scrivono in arabo: “Cadrà il regime e l’opposizione, cadranno la nazione araba e quella islamica, cadrà il Consiglio di sicurezza, cadrà il mondo, tutto cadrà”. Il 12 dicembre 2012 scrivono poi in diverse lingue: “Non è una guerra civile, è un genocidio. Lasciateci morire, ma senza bugie”. Nel 2013: “Quella che c’è in Siria è una rivoluzione, per favore capiteci”. Poi, dopo l’attentato alla maratona di Boston, hanno provato a ricordare che un essere umano ha sempre lo stesso valore: “Le bombe di Boston sono una triste rappresentazione di quello che succede quotidianamente in Siria. Vogliate accettare le nostre condoglianze”. Il 12 aprile 2013 insistevano: “Processi per i criminali di guerra, Assad e il suo regime, ecco quello che vogliono i siriani”.

Lo sguardo del mondo
Con Fares scompare anche l’idea che se i siriani fossero riusciti a parlare con il mondo, il mondo avrebbe ascoltato e li avrebbe aiutati. È l’idea che sta dietro agli striscioni e all’uso creativo dei social network, che volevano svegliare una comunità internazionale silenziosa dall’inizio di una guerra che ha fatto 11 milioni di profughi e 350mila morti.

Sul campo però, Fares aveva molti nemici. Se gli assassini materiali sono stati i jihadisti, possiamo anche pensare che ci sono stati in realtà vari mandanti.

I funerali di Raed Fares e Hamoud Jneed a Kafranbel, Siria, il 23 novembre 2018. (Muhammad Haj Kadour, Afp)

I jihadisti del gruppo Stato islamico o di Jabhat al Nusra lo stavano minacciando da tempo perché su Radio Fresh trasmetteva musica e faceva parlare le donne.

Il vero mandante è stato però il regime di Assad, il suo nemico numero uno. Fares lo raccontava al forum di Oslo nel maggio 2017: il suo impegno era cominciato all’età di sette anni, quando aveva visto il suo vicino di casa ucciso dagli uomini del regime sotto la sua finestra; poi era cresciuto quando, nel 1982, a 11 anni, aveva parlato con i superstiti del massacro di Hama venuti a rifugiarsi a Kafranbel. Hafez al Assad, padre di Bashar, aveva ucciso 40mila siriani a Hama – più o meno la popolazione attuale di Kafranbel. Quando nel 2011 cominciano le proteste, Fares smette di studiare medicina per impegnarsi nella rivoluzione.

L’abbandono da parte degli Stati Uniti è stato l’ultimo responsabile dell’omicidio di Fares. Lo ha scritto lui stesso in un editoriale per il Washington Post, quando Trump ha annunciato il taglio degli aiuti alla Siria. “Trump vuole ‘disimpegnarsi immediatamente della Siria’. Ma ho una cattiva notizia da dargli: senza finanziamenti di voci indipendenti come Radio Fresh il mondo vedrà nascere un altro stato islamico in Siria, e quello sarà un pericolo duraturo per gli Stati Uniti”.

La sua morte segna sicuramente la fine degli striscioni e di quella voce così unica di Kafranbel, ma ad ascoltare le sue parole a Oslo non segna la fine del sogno del popolo siriano: “La rivoluzione francese ha cambiato l’Europa perché ha cambiato gli esseri umani dall’interno. Vi prometto che la rivoluzione siriana cambierà la faccia del Medio Oriente, perché cambia le persone dell’interno. Le rivoluzioni sono idee che non possono essere uccise con le armi”.

L’ultimo tweet di Fares è datato 5 ottobre 2018, mostra una manifestazione pacifica e colorata contro Assad, con le bandiere siriane al vento.

Un ritratto di Raed Fares era stato pubblicato dal New York Times Magazine e tradotto da Internazionale sul numero 1090 uscito il 20 febbraio 2015.

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