06 novembre 2018 14:54

Che in Italia si rischi, o sia in atto, un’involuzione in senso fascista della società e della cosa pubblica, è un tema che va affrontato senza titubanze. Non si tratta solo di tenere il conto del calendario nero delle aggressioni – dal raid di Luca Traini a Macerata il 3 febbraio 2018 al pestaggio avvenuto a Bari nel settembre scorso, alle centinaia di violenze quotidiane che subiscono soprattutto i cittadini neri, italiani o stranieri poco importa. Ma anche di osservare la stretta legislativa che prevede un attacco ad alcuni princìpi democratici basilari (il decreto su immigrazione e sicurezza è un esempio preoccupante).

Ben venga quindi ogni tentativo di lanciare l’allarme in questi tempi confusi, in cui la minimizzazione della violenza fascista rischia di nutrire – come un processo di assuefazione – la nostra coscienza, finendo per renderla insensibile.

L’ultimo libro di Michela Murgia, Istruzioni per diventare fascisti, è una sorta di apologo paradossale in cui un fascista immaginario cerca di persuadere il lettore della bontà della sua prospettiva politica contro quella dei suoi avversari, i democratici. Convincente o meno l’approccio da satira swiftiana, quello che sicuramente lascia più incerti è l’idea che si ricava da ciò che Murgia definisce fascismo.

Tesi per assurdo
Come un manuale di educazione politica rovesciato, il libro delinea capitolo dopo capitolo le qualità che dovrebbero costruire il fascista perfetto. Vedere quali sono queste caratteristiche ci fa comprendere che per Murgia quando parliamo di fascismo parliamo essenzialmente di ignoranza: si tratta di un populismo di destra, della banalizzazione del dibattito pubblico, di antintellettualismo, di una vaga ricerca di capri espiatori per la crisi sociale, dell’ostilità ormai diffusa a una pratica democratica, di un’ottusa xenofobia che si scontra con il multiculturalismo – “Si comincia mangiando kebab e si finisce togliendo i crocefissi dalle scuole con la scusa del rispetto, privandoci delle nostre radici e della nostra identità” – di un analfabetismo morale che se la prende con il politicamente corretto, di un’omofobia e un antifemminismo da spogliatoio, di annacquamento della memoria storica, eccetera.

Le tesi per assurdo con cui Murgia cerca di corroborare il suo punto di vista sono spesso scivolose. In questo passo, per esempio, spiega come il fascismo può far propria la ragione populista:

Essere populisti da fascisti non è difficile: è come corteggiare una ragazza bruttina che sa di esserlo perché per anni gli altri ragazzi l’hanno snobbata, ma che non vede l’ora che arrivi il tipo che le dice che sono stati loro gli stupidi a non capire la sua bellezza. Quel ragazzo, se azzecca la cosa da dire, se la porterà a letto tutte le volte che vuole e lei sarà sempre molto felice di andarci. L’avevate notato che nemmeno la fica è democratica? Non ce n’è per tutti, ma solo per chi sa prendersela. Per cui, se volete essere fascisti, siate prima di tutto seduttori: guardatevi intorno e cercate la bruttina sociale. È pieno.

E anche più azzardato è il test che Murgia ha battezzato Fascistometro, in cui elenca 65 luoghi comuni e chiede al lettore di spuntare quelli in cui – suo malgrado – si riconosce, in modo da capire quanto fascismo alberghi in lui.

Le frasi sono di questo tipo: “Non si fa nulla per il problema delle culle vuote”, “L’ideologia gender sta rovinando le famiglie”, “Non rispettano le nostre tradizioni”, “Il suffragio universale è sopravvalutato”, “Non abbiamo il dovere morale di accoglierli tutti”, “Basta partiti e partitini”…

A conti fatti sono le banalità che negli ultimi dieci anni abbiamo sentito pronunciare migliaia di volte da cittadini qualunquisti e che poi sono diventati gli elementi cardinali della retorica anche di molti esponenti politici e di governo.

Murgia, probabilmente consapevole dei rischi di fraintendimento di un libro che si propone fin dall’incipit come una satira, ci tiene a chiudere con una postilla chiarificatrice intitolata “A scanso di equivoci”, in cui scrive:

Non mi interessava scrivere un libro contro i fascisti di oggi o di ieri, italiani o americani, locali o globali. Chi siano i fascisti oggi è una cosa che non ha bisogno di me per essere evidente. Chi mette muri, chi limita la solidarietà ai suoi, chi mette gli uni contro gli altri per controllare entrambi, chi limita le libertà civili, chi nega il diritto alla migrazione con l’arma della legge e l’alibi della responsabilità, questi sono i fascisti oggi. Il problema è stabilire chi non è in parte coinvolto nella legittimazione del fascismo come metodo, cioè quanto fascismo c’è in quelli che si credono antifascisti. Il rischio è dire: se tutto è fascismo, niente lo è. Non è così. Non tutto è fascismo, ma il fascismo ha la fantastica capacità, se non vigiliamo costantemente, di contaminare tutto.

La tesi del suo libro diventa così doppia: il fascismo è ignoranza; il fascismo “contamina tutto”.

Questa idea di un fascismo “plastico” ha molti illustri precedenti – il più lampante è nella conferenza che fece Umberto Eco il 25 aprile 1995 alla Columbia university, poi pubblicata sulla New York Review of Books, tradotta su La rivista dei libri come “Totalitarismo fuzzy e Ur-fascismo”, e infine ripubblicata nel 2017 dalla Nave di Teseo con il titolo Il fascismo eterno.

Ancora di più che nella definizione di “eterno” o di “ur-”, le somiglianze con il fascismo di Murgia si trovano nel termine fuzzy, che Eco esemplifica in una nota al libretto:

Usato attualmente in logica per indicare insiemi ‘sfumati’, dai contorni imprecisi, il termine fuzzy potrebbe essere tradotto come ‘sfumato’, ‘confuso’, ‘impreciso’, ‘sfocato’.

Non dev’essere sfuggita a un linguista come Eco l’autocontraddizione di definire qualcosa dandogli la caratteristica di “indefinito”, anche quando tenta di giustificarla facendo appello al concetto wittgensteiniano di “somiglianza di famiglia”:

Siamo ora giunti al secondo punto della mia tesi. Ci fu un solo nazismo, e non possiamo chiamare ‘nazismo’ il falangismo ipercattolico di Franco, dal momento che il nazismo è fondamentalmente pagano, politeistico e anticristiano, o non è nazismo. Al contrario, si può giocare al fascismo in molti modi, e il nome del gioco non cambia. Succede alla nozione di ‘fascismo’ quel che, secondo Wittgenstein, accade alla nozione di ‘gioco’. Un gioco può essere o non essere competitivo, può interessare una o più persone, può richiedere qualche particolare abilità o nessuna, può mettere in palio del danaro, o no. I giochi sono una serie di attività diverse che mostrano solo una qualche ‘somiglianza di famiglia’.

È la principale debolezza che mina la tesi di Eco su un fascismo fuzzy, quando prova a considerarlo su un piano che non sia solo storico, ma transtorico, che attraversa la storia (chiamarlo eterno è sicuramente suggestivo ma è un azzardo che indebolisce l’argomentazione, per la semplice ragione che anche se vogliamo riconoscere un’ideologia fascista al di là dell’esperienza del ventennio, non possiamo non considerarlo un fenomeno della modernità).

L’elenco di qualità (o meglio, degli ingredienti) che dovrebbe distinguere questo ur-fascismo è più preciso dei 65 luoghi comuni di Murgia. Secondo Eco sono: culto della tradizione, rifiuto del modernismo, culto dell’azione per l’azione, sincretismo acritico, paura della differenza, appello alle classi medie frustrate, ossessione del complotto, vittimismo mescolato ad aggressività nei confronti di un nemico immaginario (vedi gli ebrei o gli inglesi), vitalismo bellicista, disprezzo per i deboli, culto della morte, machismo, populismo antiparlamentarista (la famosa “aula sorda e grigia”), la neolingua.

Seguendo il ragionamento di Eco, si individuano alcuni princìpi che hanno costruito l’immaginario fascista. Bisogna ricordare che Eco pronunciava questa conferenza nel 1995, in un momento in cui un partito esplicitamente erede del fascismo come il Movimento sociale italiano (Msi) stava tentando una transizione, spesso problematica e opaca, in un partito che dichiarava di riconoscere la dialettica parlamentare, Alleanza nazionale; e in cui Silvio Berlusconi evocava sì una “rivoluzione liberale”, ma facendo appello al culto acritico del capo e al populismo mediatico.

Questa concezione di un fascismo plastico, fuzzy, eterno, ideale, transtorico, ideologico, ha sempre suscitato grandi perplessità nella comunità degli storici. E domenica scorsa la storica Alessandra Tarquini su La Lettura, l’inserto culturale del Corriere, ha scritto un articolo che vuole mettere in riga il dibattito, tenendo insieme il libro di Murgia, quello di Eco e anche la riedizione per Garzanti di alcuni brani di Pier Paolo Pasolini tratti da Scritti corsari, ripubblicati con il titolo tanto arrischiato da essere strumentale di Il fascismo degli antifascisti.

Senza entrare nel merito delle critiche mosse a Murgia, a Pasolini, a Eco e ad altri – tra cui Piero Gobetti, Norberto Bobbio o Alberto Asor Rosa – il pezzo di Tarquini non lascia nessuno spazio alle loro tesi:

Pasolini, Asor Rosa, Bobbio e molti altri autori non si percepivano italiani come i loro concittadini. Descrivevano l’esperienza fascista come espressione della parte peggiore e maggioritaria del paese, e sé stessi come i rappresentanti di quella migliore e minoritaria.

Una posizione dura, che liquida così anche l’idea del celebre scritto di Gobetti (23 novembre del 1922, a nemmeno un mese dalla marcia su Roma) che il fascismo sia stato “l’autobiografia di una nazione” innamorata del suo infantilismo politico. Tuttavia, Tarquini non è dura solo nella pars destruens del suo ragionamento, ma anche nell’indicare quali dovrebbero essere i confini di un dibattito sul fascismo oggi:

In ogni caso perché non prendere sul serio il fascismo? Perché riconoscendo un oggetto storico dotato di tratti peculiari, gli intellettuali avrebbero dovuto spiegare come mai dal 1922 al 1943 gli italiani avevano offerto il proprio consenso. Nel dopoguerra, e negli anni a venire, non lo fecero e scelsero di scolorire i tratti specifici dell’esperienza fascista, di sottrarre al regime gli attributi che ne caratterizzarono l’individualità storica. È un fenomeno evidente anche oggi. Eppure gli storici hanno mostrato che il regime salito al potere nel 1922 non fu un fenomeno politico reazionario, ma il prodotto di una concezione moderna e assoluta della politica. Con buona pace di Umberto Eco, che nel 1995 (…) immaginava un ur-fascismo, una specie di Highlander, il regime mussoliniano non fu tradizionalista.

Al di là delle polemiche, l’interrogativo resta: il fascismo è un fenomeno con connotazioni storiche precise o transtorico? È la domanda che ancora aleggia, pericolosamente, nel dibattito pubblico, con traduzioni ancora più semplificanti: si può parlare oggi di fascismo e antifascismo oppure è una contrapposizione datata?

Forse la risposta a questo genere di questioni non può avvenire se non ampliando l’oggetto di studio dal fascismo storico a quello che è avvenuto dal 25 aprile 1945 in poi: l’autonarrazione di un neofascismo che ha raccolto – spesso in un sincretismo a volte simile a un’accozzaglia, a volte più articolato – elementi del ventennio e letture della società contemporanee.

Se parliamo di neofascismo, le domande risultano più complesse ma anche più inquietanti: il neofascismo è un fenomeno nostalgico o rivoluzionario? Ci serve per leggere le involuzioni della democrazia oppure ci dà solo chiavi di lettura che non servono?

Il cambiamento
Esce in questi giorni un libro dello storico Claudio Vercelli intitolato Neofascismi, che ha il pregio di unire la dimensione ideologica – quella relativa alla cultura, all’immaginario, al linguaggio usato – a quella storica. Comincia dalla riorganizzazione dei fascisti dopo la fine del regime e della Repubblica di Salò e arriva agli epigoni di CasaPound e Forza nuova, passando per Terza posizione e il terrorismo nero degli anni settanta.

Quello che emerge dal libro di Vercelli è un dato angosciante: alcune idee che sono state sempre ai margini del dibattito pubblico, considerate come letture filosofiche e politiche di terza categoria, buone al massimo per qualche casa editrice complottista o per un giornalino di sedicenti nostalgici, da qualche anno ricevono le attenzioni di case editrici importanti, magari attraverso divulgatori più o meno scaltri (Diego Fusaro, Jean-Claude Michea, Adriano Scianca, Alessandro Giuli), o hanno spazio nei giornali e nelle tv, formano il pensiero e la retorica di esponenti politici nazionali.

Libri come Populismo di Alain De Benoist, teorico della nuovelle droite francese, pubblicato da Arianna Editrice nel 2017, o La quarta teorica politica di Alexandr Dugin, edito da Nova Europa anche questo nel 2017, fino a qualche anno fa avrebbero avuto una circolazione semiclandestina (quella ridicolizzata da Eco nel Pendolo di Foucault per capirci), e soprattutto non avrebbero fornito un alfabeto ideologico a un’ampia platea di politici di destra ed estrema destra in cerca di una cassetta degli strumenti di riferimento.

Leggere il libro di Vercelli, studiare il neofascismo insieme al fascismo, elimina una polemica: il fascismo è un fenomeno che attraversa la storia, bisogna vedere quali sono le sue caratteristiche ideologiche che resistono in epoche e contesti geografici lontani dal mussolinismo.

Se leggiamo gli ultimi libri di David Bidussa, per esempio, notiamo come definire alcuni attributi transtorici al fascismo – dal nazionalismo militarizzato all’idea nostalgica di un ordine del mondo ideale a cui ritornare, alla violenza rigeneratrice – ci aiuta a riconoscere un’evidenza fascista anche in fenomeni impensabili e distanti, come per esempio nel gruppo Stato islamico o nel neopresidente del Brasile Jair Bolsonaro.

Ridurre il fascismo a una forma di analfabetismo, a un fenomeno di ignoranza storica, o a un semplice populismo di destra può essere una strategia argomentativa e un’opposizione politica inefficace. Funzionava al tempo in cui Furio Jesi scriveva Cultura di destra, mostrando in modo più acuto di Eco, come il pensiero fascista allignasse in una desertificazione semantica (nomi senza idee) più che in un mischione sincretico. Era il 1979 e il confronto politico, ideologico, era così acceso che Jesi aveva buon gioco a distinguere il grano dal loglio nel campo delle idee.

Oggi il tentativo del neofascismo di creare un’egemonia culturale è meno ostacolato da un argine eroso da dieci anni di antipolitica e di populismi.

Tre populismi
Quello che non è chiaro a chi studia e teme il ritorno dei fascismi, è che stiamo parlando di un fenomeno diverso dal populismo di destra, reazionario o rivoluzionario che sia. Il populismo, se vogliamo prendere per buona l’analisi che fa Ernesto Laclau in La ragione populista, è un modello politico che divide la società a metà.

Un modello che identifica il popolo (buono) e le élite (cattive) in modo arbitrario. Per fare un esmpio, il marxismo divide la società in classi a seconda della composizione socio-economica, e quindi individua padroni da una parte e lavoratori dall’altra, mentre il populismo traccia una linea sghemba.

Negli ultimi anni in Italia abbiamo avuto tre populismi: quello grillino che ha diviso la società tra onesti e corrotti, quello renziano che ha diviso la società tra nuovi e vecchi, e ora quello salviniano che la divide in italiani e non. Sono chiaramente distinzioni arbitrarie, e per questo deboli: se è facile vedere quali siano le differenze tra gli interessi degli imprenditori e quelli degli operai, è molto più difficile riconoscere una società divisa tra nuovi e vecchi, tra onesti e corrotti, o anche tra italiani e non italiani – specie quando gli stranieri hanno tutte le ragioni per rivendicare i diritti di cittadinanza.

Questi tre populismi – ma anche altri, pensiamo alla contrapposizione tra vaccinisti e antivaccinisti – sono riusciti a svuotare il campo della politica dai conflitti reali. In questo spazio le idee fasciste e neofasciste sono sopravvissute e sembrano meno pagliaccesche, residuali, autocontraddittorie, violente, come invece è stato per tutti i decenni in cui l’antifascismo è stato la religione civile della repubblica italiana e la sua fonte principale di cultura politica, a partire dalla scrittura della costituzione.

Quale compito possono darsi oggi gli intellettuali che hanno a cuore l’antifascismo? Quello di una militanza, non solo culturale, che parta dall’assunzione anche dolorosa che in questo momento la cultura fascista non può essere ridotta a un indistinto qualunquismo, a un analfabetismo democratico e nemmeno a un sincretismo ideologico simile a un’accozzaglia. Occorre leggere i neofascisti e combatterli, sul piano delle idee e sul piano dell’impegno personale. Altrimenti il rischio è che diventi un duello tra anime belle e anime brutte, e non è detto nemmeno che vincano le prime.

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