12 ottobre 2018 12:37

Gli uffici della Miniwiz al centro di Taipei hanno tutti i segni caratteristici di una startup dinamica e lanciata. Il grande open space al quattordicesimo piano di un edificio di soli uffici, da cui si apre la vista sulla capitale di Taiwan, è pieno di giovani alla moda accalcati intorno a schermi di computer. Nell’area comune al piano inferiore si possono trovare una console per videogiochi, un tavolo da ping-pong e un canestro. La sensazione di non essere di fronte alla solita impresa di e-commerce, però, deriva dai sacchi pieni di vecchie bottiglie di plastica, cd e filtri di sigaretta differenziati con estrema cura.

Invece di commerciare prodotti virtuali nuovi di zecca, la Miniwiz trae i suoi guadagni dal dare nuova vita e nuovo utilizzo ai rifiuti. Le sedie della sala conferenze, all’inizio della loro vita, sono state bottiglie di plastica, imballaggi alimentari, barattoli di alluminio e suole di scarpe.

La parete trasparente che separa quest’area dagli uffici del direttivo deve il suo aspetto simile all’ambra a un mix di plastica riciclata e crusca. Il caffè è servito in bicchieri ricavati da schermi di iPhone rotti.

Arthur Huang, 40 anni, architetto laureato ad Harvard, è il fondatore e capo dell’azienda. Nei primi anni duemila aveva provato a mettere in piedi la sua attività a New York, ma la sua impresa fallì scontrandosi con il fatto che erano davvero pochi gli americani determinati come lui a diminuire i rifiuti al livello globale. Al contrario, molti suoi compatrioti avevano la sua stessa ossessione. E continuano ad averla.

Sprechi storici
L’isola di Taiwan è un perfetto testimonial di questa situazione: si ricicla il 52 per cento di rifiuti domestici e delle attività commerciali e il 77 per cento dei rifiuti di origine industriale e queste cifre la portano a rivaleggiare con la Corea del Sud, la Germania e le altre nazioni leader nel settore (gli Stati Uniti riciclano invece rispettivamente il 26 per cento e il 44 per cento).

I proventi derivati annualmente dall’industria dello smaltimento dei rifiuti a Taiwan ammontano a due miliardi di dollari; 16 delle 32 squadre che quest’anno si sono sfidate ai Mondiali di calcio in Russia, afferma con orgoglio il ministro dell’ambiente Lee Ying-yuan, indossavano divise prodotte sull’isola con fibre derivate da plastica riciclata.

Nel 2016 nel mondo sono stati prodotti due miliardi di tonnellate di rifiuti solidi urbani

Da più di due secoli, dall’inizio della rivoluzione industriale, le economie occidentali si reggono sul modello “prendi, produci, getta”, ma lo spreco che questa condotta ha generato in Europa e negli Stati Uniti nel ventesimo secolo è nulla in confronto alla mole di rifiuti prodotta al giorno d’oggi dalle economie in espansione come la Cina.

Stando a una recente relazione della Banca mondiale, nel 2016 nel mondo sono stati prodotti due miliardi di tonnellate di rifiuti solidi urbani (rifiuti domestici e commerciali), un netto aumento rispetto all’1,8 miliardi di tonnellate di tre anni prima. Ciò corrisponde a circa 740 grammi al giorno pro capite, includendo nel conto ogni uomo, donna e bambino sulla Terra.

Questa cifra non include la quantità ancor più vasta di rifiuti prodotti dal settore industriale. Gli scarti solidi industriali contengono più materiali come gli scarti di metallo prezioso e la loro raccolta è da tempo gestita assai meglio da aziende in cerca di profitto. C’è poi il problema più rilevante in termini di gestione dei rifiuti, ossia i 30 miliardi di tonnellate di anidride carbonica che ogni anno finiscono nell’atmosfera.

Il costo del benessere
Mano a mano che si diventa più ricchi si tende a consumare – e a gettare via – di più. La popolazione dei paesi industrializzati corrisponde al 16 per cento di quella mondiale, ma produce il 34 per cento dei rifiuti del pianeta. La parte del mondo non industrializzato sta velocemente accorciando le distanze.

Se le tendenze resteranno quelle attuali, secondo le proiezioni della Banca mondiale, entro la metà del secolo la popolazione europea e nordamericana arriverà a produrre il 25 per cento di rifiuti in più rispetto a oggi. Nello stesso lasso di tempo, il volume aumenterà del 50 per cento in Asia orientale, del 200 per cento in Asia meridionale e del 300 per cento nell’Africa subsahariana). La cifra mondiale annua sarà di circa 3,4 miliardi di tonnellate.

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Nella relazione della Banca mondiale si afferma che la produzione di rifiuti sta aumentando a un ritmo troppo elevato e che non può procedere di pari passo con la crescita economica e il miglioramento del tenore di vita. Per porre fine a questa correlazione è necessario che tutti gettino via meno e riutilizzino di più, rendendo così le economie più “circolari”, come dicono gli attivisti. Questo può avvenire solo se le persone cominceranno a “identificare l’economia circolare con il guadagnare denaro”, sostiene Tom Szaky di Terracycle, azienda sviluppatrice di tecnologie per l’uso di materiali difficili da riciclare. “Prendi, usa e getta” deve cedere il passo a “riduci, riusa, ricicla”, afferma Szaky.

Esempi virtuosi
Il problema dei rifiuti al livello globale forse non è una sfida terrificante come quella del riscaldamento climatico, ma potrebbe essere più semplice da risolvere. Questo perché le azioni locali di raccolta e riciclo dei rifiuti hanno effetto immediato sul territorio e possono quindi innescare un circolo virtuoso del cambiamento.

La gente prende più facilmente l’iniziativa se può vedere quasi subito i risultati di un cambiamento delle abitudini. A maggior ragione se si considera che diminuire la produzione di rifiuti comporta non uno, ma due benefici. Non solo risolve un grande problema (i rifiuti solidi) ma, diversamente dalla lotta allo smog, crea un beneficio tangibile sotto forma dei materiali riciclati che possono essere nuovamente usati. In aggiunta, tutti sanno quanto sia spiacevole vedersi circondati da rifiuti solidi (l’unica categoria di rifiuti presa in considerazione in questo rapporto).

In totale solo il 13 per cento dei rifiuti solidi urbani di tutto il mondo è riciclato: troppo poco

Questo non significa che passare a un’economia più circolare sarà facile. Attualmente il 37 per cento dei rifiuti solidi finisce in discariche interrate in tutto il mondo, il 33 per cento in discariche a cielo aperto, l’11 per cento negli inceneritori. Una parte finisce in cumuli di compost. Negli Stati Uniti sono attualmente riciclati due terzi dei barattoli di alluminio, ma solo il 10 per cento della plastica. In totale solo il 13 per cento dei rifiuti solidi urbani di tutto il mondo è riciclato e siamo tutti d’accordo che questo è davvero troppo poco.

L’urgenza del problema è fuor di dubbio. Nel luglio 2018 la corte suprema dell’India ha lanciato un monito sullo stato di Delhi, la capitale del paese, sepolta sotto immensi cumuli di rifiuti. Quando le discariche prendono fuoco, come è successo a più di 70 discariche in Polonia nell’arco di questa torrida estate, i fumi tossici invadono e soffocano le zone circostanti. I materiali tossici si infiltrano nel terreno e avvelenano i bacini idrici.

Alcuni fiumi dell’Indonesia sono talmente ricoperti dai rifiuti da rendere impossibile vedere l’acqua. Secondo quanto riportato dalle Nazioni Unite, nelle aree dove i rifiuti non sono raccolti con regolarità l’incidenza della diarrea è doppia e le infezioni acute delle vie respiratorie sono sei volte più frequenti del normale.

L’immondizia gettata in mare può tornare a terra creando il caos. Ad agosto il mare Arabico ha depositato in soli due giorni dodicimila tonnellate di detriti e rifiuti sulle coste di Mumbai. Oppure può privare il mare dei suoi tesori. I pescatori del mare Arabico lamentano il fatto che la plastica pescata è diventata il quadruplo del pesce. L’isola di rifiuti nel Pacifico (o Great Pacific garbage patch) nasce da un vortice oceanico delle dimensioni dell’Alaska a nord dell’oceano Pacifico e su di esso confluisce ogni rifiuto galleggiante portato dalle correnti: oggi si stima che possa contenere 79mila tonnellate di rifiuti in plastica.

Entro il 2025 i gas serra prodotti dall’industria dei rifiuti e nati dal susseguirsi di reazioni chimiche all’interno delle fosse, potrebbero rappresentare l’8-10 per cento del totale delle emissioni responsabili del riscaldamento globale. Se non si trova rimedio, questa discarica a cielo aperto rischia di travolgere il pianeta.

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La buona notizia è che in tutto il mondo sia la classe politica sia la sfera pubblica si stanno sempre più rendendo conto dei costi in termini economici, ambientali e umani dei rifiuti, nonché delle opportunità perse che rappresentano.

Molti dei governi dei paesi meno industrializzati cominciano a capire che spendere meno – o niente – nella gestione dei rifiuti significa dover pagare di più per servizi come l’assistenza sanitaria necessaria a curare le ricadute sulla salute di questa condotta. Nel mondo meno industrializzato viene raccolta solo la metà dei rifiuti urbani; nei paesi con i redditi più bassi circa il 90 per cento degli scarti finisce nelle discariche abusive. Per far sì che i dati migliorino è necessario investire in infrastrutture per la raccolta e lo smaltimento dei rifiuti come discariche gestite o inceneritori a basso impatto ambientale. L’esempio di Taiwan dimostra che è possibile e che non significa affatto porre ostacoli al riciclo.

I paesi ricchi hanno già queste strutture: ora devono aumentare la capacità di ricavare materiali di valore dai propri cicli di rifiuti. Per un ventennio hanno contato sui paesi in via di industrializzazione, prima tra tutti la Cina, per far riciclare i propri rifiuti. Nell’arco degli ultimi 25 anni, nei porti della Cina sono stati scaricati 106 milioni di tonnellate di plastica da riciclare provenienti da tutto il mondo.

Tutto questo sistema è saltato in aria lo scorso gennaio, quando la Cina ha chiuso le sue frontiere all’importazione di plastica e carta indifferenziata, senza alcuna preoccupazione per le conseguenze sull’ambiente. I responsabili della gestione dei rifiuti di tutto il mondo si sono così trovati con tonnellate di rifiuti indesiderati e i politici con montagne di domande – come aumentare l’efficacia della raccolta differenziata e cambiare finalmente l’approccio dei cittadini al problema rifiuti – alle quali non sanno rispondere.

La classe politica europea e quella statunitense – forse non Donald Trump, il presidente degli Stati Uniti dalla linea politica tutt’altro che ambientalista – si stanno dando degli ambiziosi obiettivi nel campo del riciclo e stanno cercando di cambiare radicalmente il loro metodo di gestione dei rifiuti.

Tecnici o imprenditori come Huang e Szaky sognano e danno forma a modi più intelligenti e produttivi di gestire e riutilizzare l’immondizia. Le multinazionali cominciano a prendere in considerazione modelli d’impresa a basso impatto basati su contratti per fornitura di servizi anziché sulla vendita di prodotti. E molti sono i consumatori che stanno adottando stili di vita più semplici.

L’esempio di Taiwan
I bilanci delle amministrazioni locali, d’altro canto, sono ovunque limitati. Le guerre doganali ostacolano il commercio di scrap (come vengono chiamati nel settore i rifiuti riciclati). Sono necessarie leggi che regolamentino la gestione dei rifiuti, ma spesso sono scritte in modo oscuro. I governi devono ancora trovare il modo di sostenere investimenti su larga scala nel settore del riciclo, ostacolato dal continuo calo dei prezzi delle materie prime. E molti temono che il passaggio a una economia più circolare possa essere dannoso per chi opera secondo il vecchio modello d’impresa.

Questi sono problemi reali ma non insormontabili. Negli anni novanta la crescita economica, l’innalzamento del tenore di vita e il forte aumento dei consumi avevano di gran lunga superato la capacità di Taiwan di gestire i suoi rifiuti, portando il paese a guadagnarsi il soprannome per nulla lusinghiero di Isola di immondizia. Nel 1993, 25 anni fa, un terzo dei rifiuti di Taipei non veniva nemmeno raccolto e né tantomeno riciclato. Nel 1996 i due terzi delle discariche erano ormai quasi pieni.

Di fronte al crescere delle proteste il governo decise la creazione di 24 impianti di incenerimento per bruciare i rifiuti, al costo di 2,9 miliardi di dollari. Allo stesso tempo, la popolazione fu incoraggiata a produrre meno rifiuti. Produttori e marchi di distribuzione hanno cominciato a contribuire ai costi di smaltimento dei loro prodotti, sia pagando un contributo per i costi di gestione e smaltimento, sia talvolta provvedendo essi stessi alla loro gestione.

Meno il prodotto è riciclabile e tanto più i costi per l’azienda saranno elevati. E questo schema è in vigore ancora oggi. I nuclei familiari pagano per la quantità di rifiuti non differenziati che producono, ma non per la carta, il vetro, l’alluminio e gli altri materiali riciclabili. Chi viene sorpreso a disfarsi illegalmente dei propri rifiuti va incontro a sanzioni salatissime e al pubblico scherno. Oggi un taiwanese getta, di media, 850 grammi di rifiuti al giorno, rispetto al chilo e mezzo di vent’anni fa.

Sono passati cinquant’anni da quando gli ecologisti hanno cominciato a implorare i consumatori di ridurre, riutilizzare e riciclare, e oggi esortazioni di questo genere riecheggiano da San Francisco a Shanghai. E il mondo, sommerso di rifiuti, ha finalmente cominciato ad ascoltare.

(Traduzione di Mariachiara Benini)

Questo articolo è stato pubblicato dal settimanale The Economist.

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