21 marzo 2019 14:02

A meno di cambiamenti dell’ultimo minuto, è quasi certo che l’Italia aderirà alla Belt and road initiative (Nuova via della seta, Bri) della Cina. Sarà una manna per la potenza asiatica e per il suo leader, Xi Jinping.

È previsto che l’Italia firmi un memorandum d’intesa sulla Bri durante la visita di Xi nel paese, tra il 21 e il 23 marzo, diventando così il primo paese del G7 a prendere ufficialmente parte al gigantesco progetto commerciale, d’investimento e infrastruttura cinese, progettato per rafforzare non solo l’influenza commerciale ma anche quella globale della Cina.

In apparenza la partecipazione ufficiale di Roma a questa iniziativa miliardaria di Pechino è puramente una questione economica tra i due paesi. In realtà, tuttavia, le cose non sono così semplici.

Avviata da Xi nel 2013 e inclusa nella carta costitutiva del Partito comunista cinese nel 2017, la Bri incarna il principale obiettivo della politica estera cinese, e quindi di Xi. Di conseguenza la macchina della propaganda di Xi e di Pechino hanno usato tutti i mezzi e tutte le occasioni per promuoverla.

Nel suo discorso d’apertura del grandioso Belt and road forum del 2017, Xi ha rivelato di aver avuto l’idea dell’iniziativa, da lui definita “il progetto del secolo”, dopo aver ravvisato “un deficit di pace, sviluppo e governo che pone una spaventosa sfida all’umanità”. Per Xinhua, l’agenzia stampa ufficiale cinese, “l’iniziativa è un perfetto esempio di come la Cina condivida la propria saggezza e le proprie soluzioni relative a crescita globale e governo”.

La notizia che l’Italia aderirà all’ambiziosa strategia della Cina ha provocato l’apprensione di Bruxelles e di Washington

Ma non tutti, e non tutti i paesi, hanno visto la cosa di buon occhio. Alcuni la considerano uno strumento strategico con cui Pechino intende allargare la propria sfera d’influenza. Per altri, invece di rafforzare i paesi che vi parteciperanno, il progetto spinge molti di essi a contrarre enormi disavanzi di bilancio, in quella che è ormai nota come trappola del debito.

Alcuni paesi, compresi vicini asiatici della Cina come la Malaysia, si sono in realtà già resti conto di tali rischi e hanno di conseguenza riconsiderato, ridimensionato o abbandonato i propri progetti legati alla Bri.

Una risoluzione sulle relazione tra Cina e Ue, approvata con una schiacciante maggioranza lo scorso settembre dal Parlamento europeo, avvertiva che i progetti infrastrutturali elaborati nel quadro dell’imponente programma cinese, “potrebbero creare gravi debiti” per i paesi europei coinvolti, sostenendo che “alcuni progetti infrastrutturali legati alla Bri hanno già spinto governi terzi in condizioni di iper indebitamento”. I funzionari statunitensi, compreso il vicepresidente Mike Pence, hanno ripetutamente ammonito altri paesi sui rischi posti da quest’iniziativa.

Non sorprende quindi che la notizia che l’Italia aderirà all’ambiziosa strategia della Cina abbia provocato l’apprensione di Bruxelles e l’opposizione di Washington.

In una mossa vista come una strigliata nei confronti degli stati dell’Ue troppo favorevoli alla Bri di Pechino, come l’Italia, e come un tentativo di adottare un approccio unitario verso “il potere economico e l’influenza politica crescenti della Cina”, il 12 marzo scorso la Commissione europea ha diffuso una comunicazione strategica, nella quale ha avanzato anche dieci proposte sul modo in cui trattare con Pechino. Altro dato rilevante, Bruxelles definisce ormai la Cina “un rivale economico in cerca della leadership tecnologica e un rivale sistemico che promuove modelli alternativi di governo”.

Tre giorni prima il Consiglio di sicurezza nazionale della Casa Bianca aveva severamente avvertito che, “trattandosi di un’importante economia globale e di una grande destinazione d’investimenti”, il sostegno dell’Italia alla Bri “legittimerebbe l’approccio predatorio della Cina” e che una simile mossa “non porterà alcun beneficio al popolo italiano”. Lo stesso giorno, un portavoce dell’istituzione statunitense ha anche invitato pubblicamente l’Italia a non “dare legittimità a questo vanaglorioso progetto infrastrutturale cinese”.

Dal momento che Xi Jinping, definito il “presidente di tutto, di tutti e di ogni luogo” della Cina, regna ormai incontrastato sul paese e i suoi 1,3 miliardi di abitanti, non è tollerato alcun tipo di opposizione al suo governo e alla sua politica estera, compresa la Bri, il suo progetto prediletto. Eppure, come sottolineato da alcune persone, esiste probabilmente un certo malcontento a proposito di questa sua iniziativa dai costi spropositati, soprattutto in un periodo nel quale l’economia cinese sta rallentando e il paese deve fare i conti con altri rischi e ostacoli seri.

Queste reazioni dall’estero e i mugugni in patria hanno messo molta pressione sulla Cina e soprattutto su Xi Jinping, l’architetto della Bri.

In questo contesto, la partecipazione ufficiale dell’Italia alla Bri è straordinariamente significativa per la Cina e per Xi, che è capo del partito, dello stato e dell’esercito.

La decisione di aderire al programma cinese non è stata presa con entusiasmo unanime da tutto l’attuale governo italiano

Naturalmente l’Italia non è il primo paese dell’Ue ad aderire a questo progetto. Circa una dozzina di paesi dell’unione, tra cui Bulgaria, Croazia, Grecia, Polonia, Portogallo, Repubblica Ceca, Slovacchia, Slovenia e Ungheria hanno già firmato dei memorandum d’intesa con Pechino a proposito della Bri.

Ma a differenza di questi paesi, l’Italia è la quarta economia dell’Ue (dopo Germania, Regno Unito e Francia) e l’ottava del mondo. È anche parte del G7, il gruppo delle principali democrazie industriali. Di conseguenza, la sua adesione ufficiale alla Bri presenta maggiori, e più intricate, conseguenze.

Staccandosi dall’Ue e dal G7, sfidando l’opposizione degli Stati Uniti alla Bri a guida cinese, l’Italia non appoggia solo il controverso progetto di Pechino ma decide anche di allinearsi con un paese autoritario, a danno dei suoi alleati tradizionali. In un periodo nel quale la Cina si trova impantanata in varie dispute con paesi occidentali, in particolare con gli Stati Uniti, su un’ampia gamma di questioni cruciali, la mossa dell’Italia è indubbiamente una grande vittoria diplomatica per Pechino.

Il sostegno di Roma contribuisce anche ad attenuare la pressione interna su Xi. Uno degli obiettivi principali della visita di stato di quest’ultimo in Spagna, lo scorso novembre, era quello di convincere il paese ad aderire al suo ambizioso piano, ma Madrid ha poi rifiutato di farlo.

Detto questo, è ancora troppo presto per stabilire se la decisione dell’Italia di sostenere la Bri questa settimana trasformerà le relazioni tra Roma e Pechino e le rispettive politiche estere.

La decisione di aderire al programma cinese non è stata presa con entusiasmo unanime da tutto l’attuale governo italiano. Luigi Di Maio, leader della formazione antisistema Movimento 5 stelle (M5s), al contempo euroscettico e antistatunitense, sostiene la mossa. Ma Matteo Salvini, leader del partito di destra Lega e vicepresidente del consiglio al pari di Di Maio, è meno entusiasta e ha messo in guardia contro il rischio di “una colonizzazione dell’Italia da parte delle aziende straniere”.

L’attuale governo italiano, considerato il primo governo populista dell’Europa occidentale contemporanea, è una coalizione tra la Lega e il M5s. Il suo premier, Giuseppe Conte, professore di diritto, non appartiene a nessun partito. Il governo è nato lo scorso aprile e rimane fragile. Forse, per il bene dell’alleanza di governo, Salvini e la Lega dovranno sostenere questa decisione.

Tuttavia non è chiaro per quanto tempo entrambi i partiti del governo e il suo presidente del consiglio potranno mantenere un fronte così unito, soprattutto visto che la scommessa cinese da parte dell’Italia trova l’opposizione di Bruxelles e soprattutto di Washington, che rimangono i più importanti alleati di Roma, oltre che degli analisti di politica estera.

Ogni possibile disaccordo tra le due parti, o perfino all’interno di una di esse, porterà al crollo dell’alleanza di governo. L’Italia è abituata a frequenti cambiamenti di governo. Dal 2012, quando Xi Jinping è salito al potere in Cina, l’Italia ne ha avuti cinque. Come accaduto per Maldive e Malaysia, l’arrivo di un nuovo governo in Italia potrebbe mettere fine alla politica di cooperazione con la Cina.

Inoltre, se i principali punti della bozza di cinque pagine possono valere da indicazione, il memorandum che le due parti dovrebbero firmare è molto vago, oltre a essere, secondo Conte, non vincolante.

Dati tutti questi elementi, resta da capire se gli accordi sulla Bri che l’Italia dovrebbe firmare con la Cina si concretizzeranno e saranno rispettati.

(Traduzione di Federico Ferrone)

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Questo articolo è stato pubblicato sul settimanale di Hong Kong Asia Times.

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