08 marzo 2019 15:07

Lo sciopero femminista che oggi si ripete per il terzo anno consecutivo serve a ricordare che l’8 marzo è una giornata di lotta. Non è una festa in cui reclamare o celebrare spartizioni di potere e di carriera che non cambiano niente di come va il mondo. Non è nemmeno un funerale in cui accontentarsi di commemorare le vittime della violenza, dello sfruttamento e della discriminazione.

È un’occasione per rilanciare la scommessa politica della libertà femminile, di una libertà che non si lascia ridurre a facoltà di scelta fra le chance del mercato (dei beni, del lavoro, del sesso) e pretende invece di alzare l’asticella della qualità della vita personale, della sfera pubblica, della convivenza umana. Di fare un salto di civiltà, lasciandosi alle spalle i colpi di coda violenti e revanchisti del patriarcato. Di dare forza alle relazioni, in un mondo che si voleva globale e che oggi si ritrova barrato da muri, porti chiusi, campi di concentramento e di tortura. Di aprire l’immaginazione e il respiro nelle democrazie soffocate dalla religione della sicurezza e dal fantasma dell’invasore nero.

Intersezionalità è la parola d’ordine, anzi la parola disordinante, della marea femminista che calca ormai da anni e stabilmente la scena pubblica transnazionale, come un’onda di ultrasuoni che rimbalza dalla Polonia all’Argentina, dalla Spagna agli Stati Uniti, toccando come sempre fa il femminismo tutti i canali di scorrimento fra personale e politico, dalla sessualità al lavoro (produttivo e riproduttivo), dalla violenza alla cura di sé e del mondo, e sferrando l’attacco contro quartier generali prima inespugnabili, come la fabbrica hollywoodiana dell’immaginario planetario (il #MeToo) o come la Casa Bianca (le candidate alle prossime presidenziali Usa).

Quando le donne escono allo scoperto non c’è popolo ma pluralità, non c’è identità ma differenza

Significa, quella parola disordinante, che il dominio non ha mai una sola faccia, non è mai solo maschile o solo bianco o solo padronale, ma ne condensa sempre più d’una; e che l’oppressione a sua volta non è mai a una sola dimensione, ma produce le gerarchie sociali intrecciando il genere, la razza, la classe. Guai però a limitarsi a disegnare queste cartografie stratificate del dominio e dell’oppressione: intersezionale è anche e in primo luogo l’azione che le scompiglia. Dove il potere ordina separando e murando le identità, la differenza disordina intrecciando relazioni e tessendo alleanze. È lo scompiglio che il “soggetto imprevisto” femminista, come lo chiamava Carla Lonzi, porta nello spazio pubblico da quando è venuto al mondo mezzo secolo fa. E che nello scenario politico di oggi si carica di nuove valenze e implicazioni.

L’intersezionalità taglia e sgretola i “popoli” costruiti e mobilitati dall’alto su base identitaria – nazionalistica, etnica, o più semplicemente elettoralistica – che oggi proliferano per ogni dove in occidente. Quando le donne escono allo scoperto non c’è popolo ma pluralità, non c’è identità ma differenza, non c’è mobilitazione dall’alto ma tessitura relazionale dal basso, non ci sono capi in divisa ma autorità e autorizzazioni simboliche, non c’è sfruttamento intensivo dei fantasmi dell’immaginario – le paure oggi tanto coccolate – ma apertura del presente all’immaginazione. Non c’è infine nessun sovrano e nessuna rivendicazione di sovranità, perché noi donne sappiamo per esperienza che il soggetto sovrano è quello che nel corso della storia si è costruito sul dominio della ragione sulle passioni, dell’uomo sulla donna, dei bianchi sugli “altri”. E sappiamo altresì che oggi i proclami di sovranità – statuale, popolare, individuale – sono maschere di gesso indossate a copertura della crisi ineluttabile e inarrestabile di quel soggetto: divise d’ordinanza, sfoggiate con la stessa tracotanza con cui ama indossarle il nostro ministro dell’interno e quanti come lui e con lui tentano l’assalto alla libertà femminile, murano i confini, gerarchizzano i colori della pelle, armano l’arroccamento proprietario sdoganandolo con la patente della legittima difesa.

Maschere macabre ma provvisorie, e caduche. La pluralità contro la finzione unitaria del popolo, l’interdipendenza contro la mascherata della sovranità: la scommessa femminista è sul piatto, come sempre si gioca nel cuore del presente e parla a chiunque abbia orecchie per intendere.

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